Storia di una suora missionaria

sr Andreina Piras racconta le meraviglie di Dio...

Vocazione, consacrazione ed invio missionario.
Sono nata a Sanluri in Sardegna il 5 giugno del 1931. Mia mamma mi raccontava che al momento del parto sarei venuta al mondo podalica e che aveva molta paura. Era il giorno della festa del Corpus Domini e, mentre giaceva nel letto con le doglie del parto, passò proprio davanti casa la processione del Santissimo: pregò allora Gesù di aiutarla a far venire al mondo sua figlia ed il parto avvenne infatti senza problemi. Questo episodio marcò sin da subito la mia vita e la devozione a Gesù sacramentato si legò indissolubilmente al miracolo della mia nascita. Eravamo sei sorelle e due fratelli ed io ero la più piccola. Mia sorella Augusta morì a 18 anni, nel 1944. Durante un periodo non potevamo bere acqua a casa perché era contaminata; purtroppo lei bevve dal pozzo infettato e cadde sotto febbri altissime per una settimana. Mio fratello, che era in servizio all’ospedale militare, saputa la notizia, commentò che il Signore se l’era raccolta. Questo fatto mi impressionò molto e mi fece riflettere. La sua morte fu un evento particolarmente intenso per la mia famiglia. Mio fratello le fece una flebo molto forte ed Augusta tornò in vita, chiamò la sorella Antonina ed esclamò: “l’altro mondo esiste! Vengo da lì: è troppo bello, mi dispiace lasciarvi, ma me ne vado, me ne vado”. Mia mamma mi raccontò poi che poco prima di morire mia sorella le parlò anche di persone del paese decedute che non conosceva: “guarda, c’è anche Bonaria, c’è anche Lei, la Madonna!”; dopodiché spirò. Queste sono cose che rimangono nel cuore. Era troppo bello. “Allora”, pensavo, “che faccio in questo mondo? Me ne vado”. Avevo all’epoca 13 anni. Esposi queste mie riflessioni al confessore e lui mi disse che o mi sposavo, o mi facevo suora o sarei rimasta sola ed aggiungeva che la via più bella era quella di farsi suora. Quel sacerdote mi aiutò tanto; mi spronava ad essere più paziente, a vivere la carità ed usare la gentilezza. Ricordo che scrivevo su di un quaderno i miei peccati. Il giorno della Cresima, subito dopo la guerra, nel 1945, a 14 anni, ebbi una grande gioia: sentii dentro di me come la conferma della mia vocazione a farmi suora. Il sacerdote mi consigliò però di non dire niente in famiglia: avrebbero dovuto accorgersi di tutto dalla mia condotta. Un giorno che ero intenta a spazzare nel cortile di casa mia dopo un intero giorno di pioggia, mio fratello mi vide e se ne uscì con una battuta sarcastica: “ma che vuoi fare penitenza?! Mica ti vorrai far suora?!”. Ricordo che quel commento confermò dentro di me la mia vocazione. Volevo però in particolare andare in missione: mia mamma mi comprava i quaderni delle missioni salesiane che avevano sulla copertina le immagini delle storie delle suore e passavo il tempo a guardarle incantata. Si trattava a quel punto di scegliere l’ordine religioso giusto. Avevo una sorella, Agnese, che anche lei era intenzionata a farsi suora e divenne salesiana. Ricordo che al momento della selezione giunse in paese un’ispettrice dell’ordine che mise tutte in fila le aspiranti e scelse tutte le più belle. Fu una cosa che non mi piacque e confessai ad un frate cappuccino che non volevo farmi salesiana. Quel frate cominciò così ad elencarmi gli ordini di suore, finché non arrivò a quello delle Clarisse Francescane Missionarie del Santissimo Sacramento. Lo fermai subito. Erano missionarie, come volevo io, ed erano devote del Santissimo Sacramento. Mi consegnò perciò le Costituzioni dell’Istituto e ricordo che, lettale, rimasi perplessa sulla possibilità di riuscire a stare tanto in silenzio, col carattere deciso che avevo. Oggi posso dire che mi fece giustizia poco a poco la vita religiosa.
Mi eccitava soprattutto la missione e la mia iniziale volontà era di andare in India. Sin da piccola riunivo le ragazze in strada e le facevo pregare e fare la processione; quello che imparavo a catechismo lo ripetevo agli altri.


In Bolivia e Argentina. Le missioni a Cuevo e Ivu. Le prime esperienze.
Scrissi così alla Madre Generale dell’Istituto per essere accettata, chiedendo sin da subito la missione. La Generale mi rispose subito che mi avrebbero presa, senza chiedere nulla e senza bisogno di portare alcuna dote. Fui assai contenta, anche perché di dote non ne avevo proprio! “Dal paese” mi scisse “passerà una suora e tu andrai con lei”. Fu il mio confessore ad organizzare la partenza. Scelse l’ora in cui i miei familiari tornavano dalla campagna. I miei accolsero bene la mia scelta: mio papà commentò che bisognava rispettare la volontà del Signore e che era molto contento perché aveva tre figlie chiamate da Dio; mia madre, quando le confidai che volevo farmi suora pianse di gioia e mi disse che aveva pregato perché, visto che il Signore non aveva voluto lei, almeno prendesse una sua figlia. Partii da casa il 9 dicembre del 1949. Solo papà mi accompagnò fino alla nave ad Olbia. Il resto si fermò a metà strada. Fui accolta dalla generale a Roma ed il giorno 13 entrai come probanda a Ravenna e poi come novizia a Bologna, perché il nostro convento di Bertinoro era stato bombardato. Presi nel frattempo il nome di Suor Ubalda, dal nome del cappellano del probandato. Il 31 maggio del 1950 feci la prima professione, dopodiché mi recai a Roma per due anni a studiare da maestra d’asilo. Cercavano missionarie per India, Argentina e Bolivia ed ovviamente io spingevo fortemente per l’India. Mi comunicarono però che l’offerta che mi riguardava era per Argentina e Bolivia. Ero contrariata ed in questo stato d’animo mi recai a confessarmi alla Scala Santa a Roma. Lì il confessore fu breve: “il Signore ti manda in America”. Ho sempre trovato persone decise nella mia vita. La generale mi spiegò dunque la missione in Bolivia. Partii il 3 novembre 1951 da Genova, imbarcata sulla nave “Augustus”. Era con me anche la consorella responsabile della missione di Bolivia e Argentina. La nave, sulle coste africane, prima della tappa di Dakar, ruppe le eliche su un banco di sabbia. Mi ricordo che era notte e vedevo solo i denti bianchi della gente di colore che sopraggiungeva. Avevo voluto gli indiani ed invece avevo ottenuto gli africani! Arrivammo a Buenos Aires e rimanemmo là quindici giorni prima di spostarci in treno in Bolivia, con un viaggio di due giorni. Giungemmo prima a Yacuiba e poi a Boyuibe, nella provincia di Santa Cruz. Da lì in camion raggiungemmo Cuevo, la mia prima destinazione. Era notte e le consorelle mi accolsero con gioia. Cominciò così la mia missione. Non sapevo lo spagnolo, non potevo però neanche parlare l’italiano; mi misero allora con i bambini dell’asilo. Ma mi divertivo: non c’era né acqua né luce, perciò prendevo i bambini sporchi, li portavo al fiume e li lavavo. Passando il tempo imparai un po’ di spagnolo. Mi affidarono perciò i bambini di terza elementare. Per insegnare dovevo imparare a memoria in spagnolo la lezione degli alunni. Una volta, per dire “due per otto” dissi “due parotto”, che in spagnolo significa “due fagioli”: tutti i bambini si misero a ridere e cominciarono a prendermi in giro; ricordo che ci rimasi assai male, ma la superiora mi riprese subito: “devi accettare di sbagliare”, mi rimproverò. Nel 1954 fui inviata ad Ivu, per collaborare con una comunità di frati. Il padre occupava le suore con lavori di casa e nei campi col granturco: si viveva di quello. Un giorno volli andare a cavallo a visitare le capanne degli indigeni. Appena arrivata fui subito presa da un’indigena che mi pregò: “Signora, fai miracolo per quest’uomo!”. Entrai nella capanna di rami e fango e trovai un uomo con una grossa infezione sul petto. In borsa avevo una lametta e dell’ittiolo; lo pulii e incisi un segno di croce con la lametta sull’infezione, poi mi tolsi il velo e, usandolo come garza, lo disinfettai. Dopo quindici giorni il campesino tornò a cercare “la suorina dalla mano santa”. Venne la fila di gente a cercarmi per essere curata, ma io non ero infermiera e mi rifiutai. L’anno successivo, nel 1955, fui destinata all’Argentina, a Buenos Aires, nel collegio del Santissimo Sacramento. Ci rimasi fino al 1958. In quel tempo assistetti alle turbolenze del golpe contro Peron ed alla caccia alle streghe contro i cristiani.
Nel 1959 tornai poi per tre anni a Cuevo, che mi piaceva più di Buenos Aires, ma nel 1960 mi ammalai e dovetti subire un intervento al fegato all’ospedale di Tartagal, città argentina poco dopo il confine dove rimasi fino al 1963, ospitata nel convento di Santa Caterina. Un’altra volta una bambina cadde dal tavolo di casa e non camminava più. La caricai sulla camionetta e la portai in Argentina a Tartagal: lì scoprirono che aveva in realtà la poliomielite. Subito ordinarono la chiusura delle frontiere con la Bolivia e mi trovai in grandissima difficoltà. In realtà io avevo passato il confine con in mano un certificato di frattura, ma venni accusata di aver introdotto la poliomielite in Argentina e di aver causato la chiusura della frontiera. Il capitano che mi interrogò al confine fu durissimo con me. Chiesi allora che mi portassero l’originale del certificato medico di frattura che avevo dato a Tartagal e questo mi salvò. Ci rimise purtroppo il medico che aveva firmato il referto, perché ebbe una sospensione dal servizio di tre anni. La poliomielite causò la morte di una trentina di persone. Un’altra volta ancora arrivò al collegio all’una di notte un bambino che aveva ricevuto un calcio in testa da un cavallo. Era periodo di carnevale e il dottore non c’era perché era ubriaco. Con un vicino che poteva guidare l’ambulanza lo portai a Tartagal dove trovammo il famoso medico che aveva studiato a Cuba. Pregai col babbo tutta la notte, durante l’operazione. Al mattino successivo il bambino si era risvegliato: il medico si mise a piangere, mi prese le spalle e mi disse: “ce l’abbiamo fatta!”. Fu una combinazione che quella notte di turno c’era lui. Qui c’era la mano del Signore. Accadde anche che passai la frontiera con un moribondo sulla camionetta. Avevo portato a Tartagal una persona che stava molto male. L’avevo lasciato con la moglie e la diagnosi era stata epatite e meningite. Tornata a casa cominciai però a sentirmi male anch’io. Mi aveva contagiata. Tornai allora a Tartagal per farmi curare e là mi lavarono il sangue con le flebo. Mentre ero in ospedale l’uomo si aggravò e chiese di me. Stava morendo quando lo vidi e non riusciva a dire quel che voleva. Lo imbeccai: “vuoi tornare a casa dai tuoi figli?”. Il medico mi disse che non ne voleva sapere niente. Decisi allora di caricare il moribondo sulla camionetta. Alla frontiera mi venne la paura di far passare un morto senza autorizzazione; pioveva e al controllo militare dissi solo che avevo un malato, dopodiché accelerai per arrivare rapidamente allo spazio libero. Giunsi al collegio sotto la pioggia mentre le suore facevano gli esercizi spirituali. Mi dissero: “stiamo meditando sopra la morte”. Continuai allora da sola con la camionetta per portare l’uomo a casa sua, ma ormai quasi alla meta affondai nel fango; per fortuna vennero dei vicini ad aiutarmi con le pale ma, appena videro l’uomo, si fecero tutti il segno della croce. Mi aiutarono perciò a liberare la camionetta e lasciai l’uomo, che ormai era deceduto, con loro. Alla frontiera il giorno dopo, quando tornai all’ospedale per continuare le cure, mi accusarono di aver portato un morto, ma io risposi che era solo grave. A Tartagal infine mi lavarono il sangue e tornai guarita a casa. Nella mia vita missionaria non ho solamente insegnato e aiutato i malati; ho fatto anche catechesi ai soldati, perché ero cappellano militare. Ricordo la prima volta che entrai in caserma erano tutti in fila sull’attenti. Seppi che molti dovevano essere totalmente catechizzati e tanti di loro accettarono la fede e la vita cristiana. Il giorno della prima comunione, il loro comandante, molto severo, straordinariamente accettò anche di essere comandato da me di servire cioccolato ai suoi soldati. Fu una cosa eccezionale, perché era noto tra i suoi uomini per l’estrema durezza di carattere.


Rischio l’arresto.
Sono anche stata quasi arrestata. Quando la Bolivia divenne repubblica, il presidente Victor Paz concesse la libertà di aprire le scuole a tutti, ma stabilì che l’insegnamento era a carico dei genitori degli alunni. Noi protestammo. Ricordo che il parroco mi disse: “vai in piazza”, ma poi mi lasciò sola. In mezzo alla manifestazione ad un certo punto si levò una voce verso di me: “Cosa dice la Chiesa?”. Presi allora la parola: “siamo qui in missione per i poveri, non per i ricchi. Non possiamo chiudere le porte ai poveri! Che accade al presidente, che prima apre le scuole a tutti e ora le chiude? Il collegio rimarrà chiuso finché non sia aperto per tutti!”. L’indomani venne a cercarmi la polizia. Andai in caserma, ma ebbi l’accortezza di consegnare i miei documenti alle mie consorelle. Durante il cammino mi vide anche la segretaria della scuola. L’ufficiale inferiore mi maltrattò molto, ma era proibito mettere in galera un religioso senza giudizio. Venne perciò il giudice di pace che mi difese, chiedendo il diritto d’asilo in Italia come straniera. Ricordo che commentò che chi sta sotto una bandiera ha i diritti di quella nazione e che io davo loro una lezione di civiltà. Mi portarono poi davanti al giudice civile che, indirizzandosi verso di me mi disse: “è lei Suor Ubalda?”. Al mio assenso esclamò: “mi perdoni per il crocifisso che porta!”. Al che io replicai: “se io sono libera dovrebbero essere liberi anche gli altri che sono stati trattenuti con me”. Fu così che il giudice ci liberò tutti. In tutto rimasi in caserma due ore. Nel frattempo la segretaria che mi aveva visto andare in caserma aveva suonato le campane ed aveva convocato alcuni genitori per manifestare per la mia liberazione.


L’Argentina di Peron.
Lei è stata anche testimone di periodi storici cruciali dell’America latina: la crisi del peronismo e la cattura di Che Guevara in Bolivia. Ce ne può parlare?
Sì, per l’Argentina effettivamente arrivai a Buenos Aires nel 1955, nel periodo di maggior turbolenza del governo di Peron e ci rimasi fino al 1958. Già in viaggio sul treno, insieme ad una consorella, incontrai un impiegato che avevo conosciuto all’ospedale di Tartagal il quale mi disse di non scendere in città perché c’era la rivoluzione contro i cristiani. Effettivamente quando arrivai in stazione c’era davvero gente che gridava “A morte suore e preti!”. Fu proprio in quel periodo che avvenne la guerriglia del Corpus Domini. Durante una manifestazione nel giorno del Corpus Domini, l’11 giugno 1955, fu dato fuoco ad una bandiera argentina; i peronisti incolparono dell’episodio i cattolici. Il 16 giugno, i golpisti, nemici di Peron, bombardarono Plaza de Mayo, dove si trovava il presidente, mancandolo però. Fu uno dei momenti più duri; si avverò la profezia di don Orione che aveva detto che sarebbe scorso il sangue per le strade di Buenos Aires: come risposta i peronisti bruciarono sette chiese, tra cui quella di santo Domingo e di San Francesco. Anche noi dovemmo scappare; i conventi non erano sicuri. Furono per noi tre anni di sofferenze: di notte andavamo a dormire a casa di amici; io, in particolare, avevo trovato alloggio dal fratello di una mia amica suora. Per le strade giravamo vestite da civili. Peron rimase al potere ancora per poco, dopodiché fuggì su una nave militare paraguaiana che i golpisti non potettero attaccare. Alla fine andò in esilio. Quando fuggì festeggiammo. Lasciata l’Argentina, si scoprì che sotto la casa Rosada c’era un tunnel che portava al mare, che lui usava per condurvi i nemici che faceva morire affogati. Ricordo che fra le atrocità di cui venni a conoscenza ci fu anche il racconto di una signora che era rimasta di notte al cimitero e che aveva visto i soldati che nottetempo portavano i nemici al forno crematorio. Peron manifestò la sua spietatezza soprattutto dopo la morte di Eva. Invitava a pranzo le figlie dei peronisti e metteva un foglio sotto il piatto delle donne che gli piacevano: se queste si rifiutavano le uccideva.

La cattura e morte di Che Guevara in Bolivia.
Per quanto riguarda la storia del Che in Bolivia, lui arrivò con un gruppo di guerrilleros ed andò a nascondersi nella cordillera andina di Camiri, nel Chaco boliviano. Erano aiutati da un italiano ed un francese, Debray. Questi due arrivarono alla frontiera con lasciapassare da giornalisti, per portare aiuti economici al Che, ma furono presi perché i documenti risultarono falsi. Il gruppo di guerrilleros fu perciò costretto a rubare generi alimentari nelle campagne e vennero conseguentemente denunciati dai contadini che vedevano sparire animali e prodotti di loro proprietà. L’esercito inviò allora un contingente di soldati di prima leva, con armi argentine, perché i boliviani praticamente non avevano munizioni proprie, ma furono attaccati e sconfitti dal commando del Che. Un ufficiale boliviano fece finta di essere rimasto ucciso e riuscì così a tornare al comando riferendo che i ladri denunciati dai contadini non erano affatto dei ladruncoli, ma guerrilleros, perché avevano in dotazione mitragliette russe. Dopo uno dei vari scontri che seguirono tra le parti, alcuni soldati feriti del Che furono portati ad un ospedale dei petroliferi. Un giorno arrivò all’ospedale un sacerdote che chiese di poter far visita ai malati, ma la suora di guardia non lo fece entrare. I militari boliviani seguirono il sacerdote sospetto fino al convento ma, entrati, scoprirono che i finti religiosi erano appena scappati tutti. Vennero catturati poco dopo ad un posto di blocco. Furono i guerrilleros feriti che raccontarono che il loro comandante doveva attraversare un fiume per tornare in montagna. Nello scontro con i boliviani che ne seguì il Che rimase ferito e so che fu lui ad insegnare al soldato di guardia a curarlo. Partirono dall’Argentina con le sue impronte digitali, ma il Che fu riconosciuto dalla forma della fronte. Il comandante del plotone dell’esercito boliviano ordinò l’esecuzione di Guevara ad un soldato che era stato nostro alunno e che si rifiutò, tanto che dovette ucciderlo il comandante stesso. Il soldato era stato nostro alunno al liceo, si chiamava “Toti” - mi sembra che quello fosse il suo soprannome – ed era un bel giovane alto. Ci raccontò che il Che morì da eroe, ad occhi aperti, aprendo la camicia. Fu seppellito nel luogo dove lo avevano ucciso, in una località che si chiama Yeso, che in spagnolo vuol dire “gesso”, perché lì sotto c’erano gesso e calce. Ricordo che, nel clamore che ne seguì, che la gente diceva: “Ma chi sono i cattivi?”. Devo dire che nessuno si era accorto di niente circa l’arrivo dei rivoluzionari. Che Guevara se ne stava nascosto in mezzo alle montagne e non arrivò mai in contatto vero con la popolazione, non poté comunicare con nessuno.


Il ritorno in Italia.
Quando è tornata definitivamente in Italia?
Nel 1998. Mi intossicai per una cura di TBC. Al capitolo provinciale della Bolivia, annunciai di star male e che sarei tornata in Italia. Lì dissi alle suore locali, boliviane, che era per loro il momento di crescere e fare da sole e devo dire che, da quello che so, la superiora sta portando avanti bene il collegio: credo davvero che sia importante promuovere il clero nazionale boliviano e che si espanda il Regno di Dio nella loro terra.


Qualche consiglio ai missionari.
Può dare qualche consiglio a chi si sentisse chiamato alla missione?
La cosa più importante è sentirsi uno di loro. I popoli vanno accolti come sono e non ci si deve mai meravigliare di nulla. Se c’è il rispetto delle persone, se si manifesta apprezzamento, simpatia, se c’è accettazione del loro modo di essere, se si dimostra di amare la gente in mezzo a cui siamo chiamati ad operare, la gratitudine non ti mancherà mai. Il segreto è apprezzare, rispettare senza malizia, dimostrare con la condotta che si fa quel che si dice: non si cancella il bene che si fa e si riceve in contraccambio il bene compiuto. Personalmente ringrazio il Signore, la vocazione che mi ha dato e la capacità di custodirla.